Memorie-2018

 

 

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DA ROMA ALLA TERZA ROMA

XXXVI SEMINARIO INTERNAZIONALE DI STUDI STORICI

Campidoglio, 21-22 aprile 2016

 

 

dubrovina.olgaOlga Dubrovina

Università di Modena e Reggio Emilia

 

IL RIMPATRIO DEGLI EMIGRATI BIANCHI DALL'ITALIA NEGLI ANNI '20 DEL XX SECOLO

 

 

Sommario: 1. Difficoltà impreviste. – 2. Delineamento del quadro legislativo. – 3. Casi di collaborazione. – 4. Emigrazione bianca in Italia: tra l’incudine e il martello. – 5. Conclusione.

 

 

Il mio intervento al Seminario è un primo approccio al tema del rimpatrio degli emigrati russi dall'Italia, un argomento che vorrei in seguito ulteriormente approfondire. Tra le carte conservate presso l'Archivio della politica estera della Federazione russa (in seguito AVP RF), nei fascicoli relativi alle attività della Rappresentanza sovietica a Roma, si trovano alcuni documenti che si riferiscono ai rapporti con l'emigrazione bianca. Da un primo approccio è subito evidente che non si possono ridurre queste relazioni al solo aspetto della conflittualità di interessi politici tra i russi sovietici e gli “ex” russi in Italia. Sicuramente la concorrenza tra la Rappresentanza sovietica e i diplomatici del vecchio regime creava molta tensione, anzitutto per il riconoscimento ufficiale da parte del governo italiano del nuovo Stato e, in secondo luogo, per il passaggio di beni immobili alle nuove strutture sovietiche. La questione forse ancora più complicata e ancora meno chiara nella storiografia esistente è quella dell’atteggiamento del governo sovietico nei confronti degli ex cittadini dell’Impero russo decisi a tornare in patria nonostante il cambio del regime.  Il governo sovietico non solo non aveva un unico approccio lineare nei confronti dei vozvraščency, ma addirittura cambiava i suoi atteggiamenti in base alle proprie politiche interne e alle congiunture internazionali. L’obiettivo del mio intervento consiste nell’analisi delle condizioni in cui si trovavano gli emigrati russi in Italia negli anni ‘20 del ‘900, da una parte, e nella ricostruzione del quadro legislativo sovietico inerente al ritorno degli ex cittadini dell’Impero russo nella Russia sovietica dall’altra. La sovrapposizione di questi due fattori in seguito ha determinato il rimpatrio dei cosiddetti russi bianchi nell’URSS.

 

 

1. – Difficoltà impreviste

 

All’inizio degli anni ‘20 fra le diverse difficoltà che dovettero affrontare in Italia i diplomatici sovietici che lavoravano presso la rappresentanza a Roma[1], vi fu l’improvvisa gestione del rimpatrio degli emigrati russi decisi a lasciare l’Italia. Nell’aprile 1921 N. Tikhmenev, funzionario della Rappresentanza sovietica a Roma, inviò una lettera direttamente a Georghij V. Čičerin, commissario del popolo per gli affari esteri, esponendo una serie di problematiche che non riusciva a risolvere da solo e chiedendo l’aiuto alle alte istituzioni sovietiche.

In base all’Accordo preliminare nel marzo 1921 arrivò la prima Delegazione ufficiale sovietica a Roma capeggiata da Vaclav V. Vorovskij. Subito dopo essere entrati in servizio, i diplomatici sovietici ricevettero numerose richieste di rimpatrio. Tikhmenev, membro della Delegazione, le divise in quattro categorie, in base alla loro provenienza sociale.  Il primo gruppo includeva soldati, prigionieri militari, rimasti in Italia dopo l'evacuazione di massa dal campo di concentramento dell’Asinara nel 1920. Molti di loro erano sparsi in diverse città italiane, altri, invece (circa 100-150 persone), un anno prima avevano rifiutato di tornare in Russia, e successivamente avevano cambiato idea e avrebbero voluto essere trasferiti in patria. «Noi crediamo che possiamo spedire i prigionieri in Russia senza inoltrare alcuna richiesta a Mosca assicurandoci qui sul posto che siano veramente prigionieri di guerra. Invece quelli che tempo fa hanno rinunciato ad andare in Russia ed esprimono questo desiderio adesso bisogna interrogarli bene qui per scoprire in ogni caso il motivo del loro rifiuto nonché il motivo del desiderio attuale di tornare in Russia»[2].

Al secondo gruppo, in base alla classifica di Tikhmenev, appartenevano i soldati, prigionieri di guerra, che sono rimasti in Francia dopo l'evacuazione del Corpo di spedizione in Russia, oppure soldati russi che sono stati catturati dai tedeschi e liberati e trasferiti in Francia dai francesi. «Adesso alcuni di questi soggetti venuti dalla Francia con il desiderio di tornare in Russia si sono rivolti a noi. Sono ex soldati. Crediamo che possiamo spedire in Russia anche questi ex soldati senza inoltrare una richiesta preliminare a Mosca, identificando scrupolosamente la loro identità e verificando che siano veramente ex soldati russi»[3]. 

Nel terzo gruppo rientravano i marinai delle navi commerciali che erano entrate in Italia di passaggio o che erano state fermate nei porti italiani. «Anche nei riguardi di questa categoria di soggetti crediamo che si possa mandarli in Russia senza una preventiva richiesta identificando la loro identità e la correttezza delle loro richieste»[4].

Era la quarta categoria a presentare le maggiori difficoltà per i diplomatici sovietici. Questa includeva «un certo numero di russi che vivono qui da diversi anni. Ci sono anche i vecchi emigranti. Sono gli intellettuali di cui la maggior parte molto bisognosi e vogliono tornare in Russia. Nei loro confronti bisogna essere molto cauti. Bisogna chiedere le referenze alle organizzazioni di partito oppure a compagni ben noti. Inoltre in ogni tal caso chiederemo il parere di Mosca»[5]. Nel futuro Tikhmenev prevedeva le richieste di rimpatrio anche da parte di emigrati bianchi visto che «durante l'evacuazione dalla Crimea e dal sud della Russia degli eserciti di Denikin e Vrangel' nella enorme folla spontanea di rifugiati sono capitati molti soggetti con la psicologia borghese presi dal panico senza essere controrivoluzionari attivi». Tikhmenev sosteneva che in Italia non c’erano molti emigrati di questo tipo ma quelli esistenti si trovavano in condizioni deplorevoli e prima o poi bisognava porsi il problema del loro rimpatrio a livello delle alte istituzioni sovietiche.

Il documento sopra citato rende chiaro che nella primavera del 1921 non esisteva una base legislativa sovietica ben definita nei confronti degli emigrati russi che esprimevano il desiderio di tornare in patria dopo la Rivoluzione d'Ottobre. Si tratta principalmente di tre categorie di emigrati: ex prigionieri di guerra (soldati e non ufficiali), emigrati di vecchia data e fuoriusciti che avevano lasciato la Russia dopo la rivoluzione. I diplomatici sovietici dovevano risolvere le situazioni caso per caso in mancanza di disposizioni precise per la loro gestione. Infatti, il rappresentante sovietico a Roma chiese al suo superiore di cominciare a elaborare una politica comune per poter rispondere alle richieste di rimpatrio che giungevano da diverse categorie di emigrati. Infatti, come vedremo in seguito, l'anno 1921 fu cruciale nella politica del governo sovietico per la questione del rimpatrio e della cittadinanza.

 

 

2. – Delineamento del quadro legislativo

 

Secondo la prima Costituzione del nuovo regime del 1918 il compito di «emettere le disposizioni generali sul rilascio o sulla privazione della cittadinanza russa e sui diritti degli stranieri sul territorio della Repubblica»[6] spettava al Congresso dei Soviet pan-russi e al VCIK[7] pan-russo dei Soviet. Il primo decreto volto alla regolarizzazione del rimpatrio di ex cittadini dell'Impero russo risale al gennaio 1918[8] quando il governo bolscevico permise di tornare in Russia agli emigrati fuoriusciti prima della Rivoluzione. Essi potevano attraversare la frontiera solo se in possesso del passaporto rilasciato dai rappresentanti del SNK[9] all'estero e dopo aver compilato il questionario (oprosnyj list) corredato della foto del richiedente. Il questionario con la foto veniva inviato dal rappresentante alla frontiera che nello stesso tempo telegrafava i dati personali dell'emigrato all'ufficio legale del NKID[10]. A sua volta il NKID li inviava al «quartier generale che in seguito poteva ordinare di fermare quei soggetti il cui soggiorno in territorio russo era inaccettabile per motivi militari»[11].

In base a questo decreto potevano tornare in Russia i civili, oggetto dell'Accordo sullo scambio di prigionieri di guerra firmato tra la Russia sovietica e l'Italia nell’aprile 1920. Infatti, il punto due dell'Accordo prevedeva l'obbligo del regio governo italiano di «non ostacolare la possibilità di tornare nella patria russa di ogni cittadino russo residente attualmente in Italia che ha espresso il desiderio di rimpatriarsi e ha ottenuto il permesso del Governo Sovietico e che non è condannato per gravi crimini»[12]. Presto, però, la politica sovietica nei confronti degli emigrati politici cambiò notevolmente.

Il 3 novembre 1920 venne approvato il Decreto del SNK sulla proprietà senza padrone, definita come «proprietà abbandonata di fatto dal suo proprietario in assenza ignota, e la proprietà di cui il proprietario è sconosciuto e non può essere identificato»[13]. Il 19 novembre del 1920 il SNK rilasciò una disposizione che completava il decreto precedente sul destino della proprietà espropriata dichiarando «la proprietà della RSFSR sotto ogni forma di tutti i beni mobili appartenenti ai cittadini fuggiti dal territorio della Repubblica e nascosti fino al presente momento»[14]. Tutti gli oggetti d'arte e di antichità venivano trasmessi ai musei, alle università ed altri enti d’istruzione mentre tutti gli altri beni diventavano proprietà appartenente al Commissariato del commercio estero e ad altri commissariati di competenza. Costituisce un fatto curioso che sia stato Maksim Gorkij a ricordare a Lenin di trovare un riscontro legislativo per la questione della proprietà espropriata inviandogli una lettera sulla necessità di elaborare delle misure giuridiche concrete. Tutti e due gli atti legislativi ostacolavano considerevolmente il rimpatrio degli emigrati in Russia, dove non solo non potevano più tornare in possesso delle proprie fabbriche, terre, case e appartamenti, ma neanche di tutti i beni privati[15].

Tuttavia la nota circolare del NKID dell'11 agosto 1921 conferiva alle rappresentanze plenipotenziarie della RSFSR all'estero il potere di rilasciare «la carta di identità provvisoria» dei cittadini sovietici ai soggetti che si dichiaravano russi. Il rilascio della carta di identità non permetteva comunque l'entrata sul territorio russo. In questo modo i russi all'estero ricevevano la possibilità di acquisire la cittadinanza sovietica, oppure di rifiutarla[16].

Alcuni mesi dopo, il 15 dicembre 1921 il SNK adottò un altro importante decreto “Sulla privazione del diritto alla cittadinanza di alcune categorie di soggetti residenti all'estero” secondo il quale furono individuate cinque categorie di emigranti che avevano perso la cittadinanza russa: a) soggetti vissuti all'estero per più di 5 anni e che non avevano ricevuto dalle Rappresentanze sovietiche passaporti stranieri o certificati corrispettivi entro il 1 marzo del 1922 (questo termine non riguarda i paesi dove non ci sono le rappresentanze della RSFSR); b) I soggetti partiti dalla Russia dopo il 7 novembre 1917 senza autorizzazione del Potere sovietico; c) Soggetti che hanno fatto il servizio militare volontario negli eserciti che combattevano contro il Potere sovietico e che hanno partecipato in qualsiasi forma alle organizzazioni controrivoluzionarie; d) Soggetti aventi il diritto di scelta della cittadinanza (optacia) che non avevano usufruito di questo diritto al termine della sua scadenza; e) Soggetti che non rientravano nelle categorie “a”-”c” residenti all'estero e che non si serano registrati entro il termine indicato al punto “a” presso le rappresentanze estere della RSFSR”[17]. Nel secondo articolo del decreto veniva specificato che «i soggetti, nominati nei punti “b” e “c” del primo articolo possono inoltrare la richiesta entro il 1° marzo del 1922 sul riacquisto dei loro diritti a nome del VCIK tramite le rappresentanze più vicine. Da un certo punto di vista si potrebbe considerare questa legge come un ulteriore ostacolo al rientro degli emigrati bianchi nella Russia sovietica: il governo sovietico voleva proteggere il proprio potere contro eventuali attacchi di sostenitori del vecchio regime perciò cercava di regolarizzare l'eventuale flusso emigratorio. Proprio in questa ottica va analizzata la proposta di Lenin del 1922 di condannare alla fucilazione chi avesse tentato «il rientro non autorizzato dall'estero»[18].

Da un altro punto di vista, invece, si riapriva la porta a coloro che desideravano tornare e si stabilivano i termini e la procedura precisa del rimpatrio. Il rilascio della cittadinanza russa prevedeva l'amnistia con il successivo rimpatrio nella Russia sovietica. Tramite i rappresentanti plenipotenziari sovietici all'estero, i documenti che includevano il parere del rappresentante venivano inviati all'esame del Comitato per la cittadinanza presso il NKID la cui delibera veniva equiparata alla decisione del VCIK. La procedura poteva durare fino ad un anno[19]. Le rappresentanze sovietiche all'estero potevano rilasciare i permessi di soggiorno solo alle seguenti categorie di cittadini che non avevano perso la cittadinanza in base al decreto del 15 dicembre 1921: a) ai soggetti che avevano ricevuto la carta di identità provvisoria in base alla Nota circolare dell'11 agosto 1921; b) agli stranieri naturalizzati presso le rappresentanze; c) ai soggetti partiti dalla RSFSR dopo il decreto del 15 dicembre 1921 con la tessera del NKID; d) ai soggetti partiti dalla RSFSR dopo la loro registrazione come cittadini russi[20].

Le richieste di cittadinanza sovietica arrivavano anche alla Rappresentanza sovietica a Roma e i diplomatici raccoglievano i documenti per inoltrarli poi al NKID. Il commissariato per gli esteri diventava un punto cruciale per inoltrare successivamente le richieste alle istituzioni responsabili. Al febbraio 1923 risale la lettera di Maksim M. Litvinov in cui il vice commissario per gli affari esteri risponde alle critiche di Vorovskij a riguardo «delle lungaggini nella questione del riacquisto della cittadinanza». Litvinov ricordava che «non è il NKID che si occupa di queste questioni ma una serie di istituzioni, ad esempio GPU, VCIK e altre»[21].

Il decreto del 1921 fu introdotto nella legislazione dell'Unione sovietica del 1922 grazie alla Normativa sulla cittadinanza sovietica del 1924. Infatti, con questo atto legislativo la cittadinanza sovietica fu negata ai soggetti che erano stati privati dalla cittadinanza in virtù degli atti legislativi delle Repubbliche dell'URSS approvati entro il 6 luglio 1923[22]. Inoltre il documento prevedeva la privazione della cittadinanza per tutti quelli che «hanno lasciato il territorio sovietico sia con l'autorizzazione rilasciata dalle istituzioni sovietiche sia senza tale autorizzazione e non sono tornati o non torneranno su richiesta di istituzione del potere competente”[23]. Perlopiù veniva introdotta la clausola della privazione della cittadinanza sovietica in seguito a una condanna del tribunale, come una sanzione penale[24]. Anche i rappresenti sovietici all'estero potevano fare richiesta al VCIK di privare della cittadinanza un cittadino sovietico residente all'estero. Il motivo della richiesta poteva essere un'attività antisovietica, «legami con l'emigrazione bianca» e il rifiuto di tornare in URSS[25]. Così, ad esempio, dopo essere stato licenziato e aver rifiutato di tornare a Mosca, perse la sua cittadinanza sovietica S. Pevzner, capo dell'ufficio stampa della Rappresentanza sovietica a Roma dal 1925 al 1928[26].

Il 13 novembre 1925 venne adottato il decreto del SNK e del CIK dell'URSS «Sulla privazione della cittadinanza dell'Urss di ex prigionieri di guerra e soldati internati dell'esercito zarista e dell'esercito Rosso, inoltre di soggetti amnistiati che facevano il servizio negli eserciti bianchi e di partecipanti alle sommosse controrivoluzionarie che si trovano all'estero e che non hanno rispettato i termini della registrazione”[27]. Da questo momento tutti gli emigrati russi inclusi in questo decreto potevano richiedere la cittadinanza sovietica secondo la procedura prevista per tutti gli altri stranieri.

Attuando una politica restrittiva nei confronti degli emigrati politici, il governo bolscevico temeva allo stesso tempo che i russi residenti all'estero sarebbero stati utilizzati nella lotta contro il giovane Stato sovietico. Queste preoccupazioni lo spingevano a firmare accordi con gli Stati partecipanti alla Prima guerra mondiale per regolarizzare lo scambio di prigionieri di guerra e a dichiarare una serie di amnistie all'inizio degli anni '20.

Un simile accordo con l'Italia fu firmato il 27 aprile 1920. Questo primo documento ufficiale stipulato dall'Italia e dalla Russia sovietica prevedeva il rimpatrio di 4500 prigionieri di guerra dall'isola dell’Asinara a Odessa[28]. Una ferma volontà di far tornare alcune migliaia di prigionieri di guerra russi che avevano espresso il desiderio di recarsi nella Russia Sovietica fece sì che il basso numero di italiani spediti in cambio dei russi fosse compensato da almeno due spedizioni di grano. Lo sforzo fatto dalla Russia per l'invio del grano (“khleb”) per evitare il discredito internazionale del governo sovietico venne testimoniato da Čičerin stesso: «[...] la borghesia italiana urla che tutto questo è un bluff e che noi non possiamo inviare più il pane. Bisogna smentire tutto con i fatti. Anche se poco, ma almeno qualche quantità di grano dobbiamo spedirla ancora per mostrare che le spedizioni continuano»[29]. Il primo ministro italiano F. Nitti e i socialisti italiani che hanno dato un forte sostegno e hanno contribuito alla stipula dell'Accordo consideravano l'importazione del grano come il primo passo verso la ripresa dei rapporti commerciali con la Russia Sovietica[30].

Coloro che provenivano dall'Impero russo potevano acquisire la cittadinanza sovietica grazie all'amnistia politica. Il governo sovietico nell'arco di tutta la prima metà degli anni '20 dichiarò amnistie politiche due volte all'anno (in occasione delle commemorazioni della Rivoluzione d'Ottobre e della festa del Primo maggio)[31]. Le amnistie permettevano ai soldati degli eserciti bianchi, ai semplici membri delle organizzazioni antisovietiche, nonché ad alcune categorie di emigrati partiti dalla Russia dopo la Rivoluzione d'Ottobre, di tornare in patria. La pratica prese inizio con il decreto del 3 novembre del 1921 che prevedeva il «riacquisto della cittadinanza da parte di alcune categorie di soggetti privati di questi diritti in virtù della Costituzione della RSFSR» per soldati residenti in Polonia, Romania, Estonia, Lettonia e Lituania. Con una serie di decreti l'amnistia coinvolse i soldati residenti negli altri stati europei, in Estremo Oriente, in Mongolia e in Cina occidentale[32].

Il governo sovietico effettuava il rimpatrio di ex soldati dell'esercito zarista tramite il NKID e la ROKK[33] riorganizzata dai sovietici in base alla vecchia Croce Rossa, mentre dall'ottobre 1922 le operazioni di rimpatrio furono gestite dalla GPU[34]. Il governo sovietico collaborava con l'Alto Commissario della Società delle Nazioni F. Nansen[35] che tra le molteplici questioni legate alla sistemazione di emigrati russi si era incaricato di risolvere il problema anche tramite il loro rimpatrio nell'URSS. In base all'Accordo firmato tra la SdN e la RSFSR, Nansen si assumeva l'obbligo di organizzare il rimpatrio e di sostenere le spese legate a queste operazioni. In quanto alla Russia sovietica, il governo bolscevico garantiva una piena amnistia ai soldati semplici dell'esercito zarista, nonché garanzie «in misura alla dignità e sovranità di ciascuno di loro»[36].

La vecchia Croce Rossa russa ristabilita a Parigi da ex membri della Croce Rossa nell'Impero Russo[37] assunse una posizione fortemente contraria al rimpatrio di cittadini russi, esprimendo così il parere di una corrente formatasi all'interno delle istituzioni di emigrati russi all'estero che respingeva qualunque forma di collaborazione con i bolscevichi. Jurij I. Lodyženskij, rappresentante della ROKK (vecchio regime) in esilio presso il Comitato Internazionale della Croce Rossa[38] a Ginevra scrisse a tutte le società russe all'estero avvertendole delle conseguenze negative dovute all'idea di risolvere i problemi dell'emigrazione russa tramite il rientro di ex soldati di eserciti bianchi nella Russia sovietica: «Le promesse del potere sovietico di garantire la sicurezza e l'integrità dei rimpatriati vanno considerate in base a fatti precisi irrealizzabili»[39]. Perciò il NKID poneva grande attenzione all'immagine che la Russia sovietica dava alla comunità internazionale sulla questione del rimpatrio. Lo testimonia la corrispondenza tra Litvinov (vice commissario del NKID), Fjodor A. Rotštejn (membro del comitato del NKID) e Burovcev (rappresentante del NKID a Novorossijsk) inerente all'arrivo di un piroscafo “Praga” da Marsiglia il 26 giugno 1923 con 650 rimpatriati a bordo. Litvinov chiede di «organizzare un'accoglienza dignitosa e calorosa con la partecipazione dei soldati dell'esercito rosso»[40], mentre Rotštejn insiste sulla diffusione del resoconto dettagliato dell'accoglienza e di una lettera collettiva dei rimpatriati stessi che descriva le condizioni in cui essi si sono ritrovati in patria (per smentire le notizie negative diffuse dalla stampa francese)[41].

Tutti i cittadini russi che non rientravano nelle categorie incluse nella amnistia dovevano richiedere l'amnistia in via personale rivolgendosi alle rappresentanze sovietiche all'estero e inviando la richiesta a nome del VCIK[42]. I rimpatriati dovevano rilasciare una dichiarazione di pentimento e promettere di assumere un atteggiamento leale verso il potere sovietico, dopodiché essi ricevevano il documento attestante il perdono dei crimini commessi contro il governo bolscevico. Tornati in URSS gli emigrati bianchi venivano spesso processati per omissione dei reati o per pentimento non sincero[43].

 

 

3. – Casi di collaborazione

 

Nei casi di rimpatrio in URSS vanno ricordati anche gli episodi singolari di collaborazione di alcuni ex diplomatici russi in Italia con il nuovo regime sovietico. Si tratta di almeno due personaggi a noi noti: Aleksandr I. Alekseev, ex console imperiale russo a Bari e successivamente segretario del Consolato generale dell'URSS a Genova[44], e P.G. Vranghel', ex addetto navale dell'Ambasciata di Russia a Roma. Per quanto riguarda il primo, ancora nel 1921 Alekseev risultava Console di Bari essendo stato ufficialmente riconosciuto come tale sia dalla vecchia ambasciata sia dal Ministero degli Esteri italiano. Invece nell'arco di pochi anni Alekseev cominciò  a prestare i propri servizi da diplomatico al governo sovietico. Nel 1923 lo troviamo ancora a Bari a difendere i beni della Società ortodossa di Palestina per conto dei rappresentanti del governo sovietico contro i tentativi del principe Ževakhov, membro delle organizzazioni monarchiche in Italia, di impedire il trasferimento di oggetti di culto in URSS. Nella nota ufficiale inviata dalla rappresentanza sovietica a Roma al governo italiano il 2 ottobre 1923 è stato dichiarato che «l'arresto e la deportazione del cittadino Alekseev sono stati provocati dall'ex Ambasciata russa a Roma con lo scopo di allontanare Alekseev dal Consolato di Bari per organizzare il furto dei beni dell'ex Società per la Palestina»[45]. Dopo un anno Alekseev godeva di una fiducia tale da parte dei funzionari sovietici che venne suggerita la sua candidatura a segretario presso il Consolato sovietico a Genova. Infatti, al maggio dell'anno successivo risale la lettera del primo rappresentante plenipotenziario sovietico in Italia Konstantin K. Jurenev dalla quale scopriamo che «Alekseev è un ottimo esperto. Per quanto riguarda la sua lealtà al regime, secondo i pareri di compagni locali che meritano la nostra fiducia, possiamo impiegare Alekseev per il lavoro sopraindicato [presso il Consolato sovietico a Genova]”[46]. Tuttavia, la sua lealtà non sembra completamente sincera. Da un dispaccio riservato del Prefetto di Genova del 7 agosto 1930 risulta che Alekseev – trovandosi in cattive condizioni economiche – abbia intenzione di vendere alle autorità italiane per una cospicua somma un suo memoriale su diversi temi, ad esempio su «l'organizzazione comunista per la propaganda nelle città d'Italia e all'estero», «Nomi dei comunisti dell'URSS e di quelli di Italia», ecc. Sia il Prefetto sia il Questore appoggiano l'idea di acquistare il memoriale per le notizie che contiene, considerate «utili alla lotta conto la propaganda comunista». Nonostante questo atto di tradimento Alekseev continua fino al 1937 a mantenere i contatti con il personale dell'Ambasciata sovietica[47].

La figura di P.G. Vrangel' non è meno controversa e lascia molti punti interrogativi. Anche solo la sua parentela con il famoso cugino P.N. Vrangel' suscitava sospetti nei sovietici. Infatti, il suo nome viene elencato nella lista dei «monarchici e controrivoluzionari», sospettati di attività antisovietica in Italia, inviata dal capo della Delegazione commerciale sovietica in Italia nel 1920. Invece, il suo comportamento nei confronti del nuovo governo potrebbe essere definito leale se si prende in considerazione la sua immediata disponibilità a salvare prima e trasmettere poi ai rappresentanti sovietici tutti i beni e i documenti appartenenti all'Agenzia Navale russa in Italia. Vrangel' sostiene di «osservare la neutralità nella lotta politica»[48]. Sembra che alcuni sovietici si fidassero di lui al punto di proporgli una carica nel Commissariato dell'Agricoltura in Daghestan. L'agente segreto della GPU a Roma confermava la lealtà di Vrangel' e affermava che Vrangel', «nonostante il suo cognome, merita di poter entrare in Russia»[49]. Il suo parere non era condiviso da Vorovskij, che descriveva Vrangel' come «cauto e astuto ufficiale bianco, abbastanza saggio da non rischiare la propria pelle in avventure controrivoluzionarie. Ha fatto il doppio gioco: salvaguardava i beni dell'Agenzia navale per consegnarli al governo sovietico ma nello stesso tempo prestava aiuto ai controrivoluzionari facendosi amicizie anche da quelle parti. Chiunque avrebbe vinto la propria partita lui ne sarebbe uscito vincitore»[50]. Alla fine, la fiducia da parte dei sovietici non è stata sufficiente a permettergli l'ingresso in Russia. Vrangel' visse a Narni fino al 1923 e dopo si trasferì a Londra[51].

Il caso di Vrangel' potrebbe ben illustrare il generale approccio sospettoso del governo sovietico verso gli emigrati bianchi rifugiati in Italia. Nel 1920 Mikhail Vodovozov, capo della Delegazione commerciale della Russia sovietica in Italia, esprime il timore che russi bianchi controrivoluzionari penetrino in territorio russo con l'obbiettivo di organizzare attività sovversive contro il governo sovietico. Nella sua lettera indirizzata a Litvinov propone di prendere misure «contro elementi reazionari e controrivoluzionari che sviluppano attività criminali contro la Russia sovietica all'estero in generale e a Roma in particolare se questi penetrano in Russia: e essi sono intenzionati a farlo nascondendosi sotto diversi abiti angelici»[52]. In allegato Vodovozov invia una lista di «monarchici e controrivoluzionari, che si sono screditati in Italia con attività e azioni avverse alla Russia Sovietica».  

 

 

4. – Emigrazione bianca in Italia: tra l’incudine e il martello

 

Nelle fonti ufficiali il numero di emigrati politici russi partiti dalla Russia dopo il 1917 è molto controverso. Secondo la Croce Rossa americana al 1° novembre 1920 all'estero si trovavano 1.194.000 russi. Nell'agosto del 1921 la SdN calcolava 1.400.000 persone[53]. Gli storici sovietici concordano sulla cifra di 1.500.000-2.000.000 persone. Le opere scritte dagli emigrati riportano un numero approssimativo di «circa un milione" di Russi che hanno abbandonato la patria dopo il 1917[54]. Per quanto riguarda il numero di rimpatriati, nell'Enciclopedia sovietica del 1963 è citata la cifra di 181.432 persone che sono tornate nella Russia Sovietica nel periodo tra il 1921 e il 1931[55]. Invece nella raccolta di documenti inerenti al rimpatrio degli ufficiali bianchi pubblicati recentemente troviamo la cifra di 500.000 Russi tornati a casa grazie all'attività di F. Nansen e la cifra di 120.000 russi rimpatriati in URSS solo nel 1921[56]. Quindi in base a questi dati si potrebbe presumere che dei Russi partiti dopo la rivoluzione d'Ottobre ne siano tornati in patria da un quarto a un terzo, il che darebbe al fenomeno un carattere di massa. La situazione in Italia era molto diversa dalle condizioni in cui vivevano i russi bianchi negli altri Paesi europei ed asiatici (Mongolia e Cina occidentale). Il contesto italiano e la composizione sociale hanno influenzato il processo di rimpatrio nella Russia sovietica.

Rimane ancora incerto il numero di rifugiati russi venuti in Italia dopo la Rivoluzione d'Ottobre. Secondo i dati sovietici nel 1921 in Italia vivevano circa 20.000 Russi. Questo numero è stato ripreso diverse volte nella stampa periodica degli emigranti, ma molto probabilmente non rispecchia la realtà[57]. Invece, secondo i dati della polizia italiana risulta una cifra probabilmente molto inferiore a quella reale. Infatti i nomi dei 728 russi censiti nella primavera del 1920, tra cui anche turisti o cittadini in transito, ricoverati e detenuti, si ricavano dalle dichiarazioni di soggiorno fornite spontaneamente dagli stranieri alle prefetture, quindi non contemplano l’elevato numero di coloro che per vari motivi, anche solo per negligenza, non si erano dichiarati alle autorità locali[58]. Alla Conferenza della SdN dell'agosto 1921 le autorità italiane presentarono i dati su 15.000 rifugiati russi che si trovavano sul loro territorio[59]. Facendo riferimento alla situazione del 1922 A.I. Persiani, Vice ambasciatore russo del vecchio regime, menzionava la cifra di 5.000 russi residenti in Italia[60].

Difficoltà materiali, anzitutto di carattere economico, erano emerse quasi subito dopo la Rivoluzione d'Ottobre, quando i pensionati russi avevano smesso di percepire la pensione inviatagli regolarmente dal governo zarista. L'Ambasciata russa a Roma «tenendo presente le penose condizioni materiali dei pensionati»[61] chiese al Ministero degli Esteri del governo di Omsk di concedere l'autorizzazione di richiedere il credito alla filiale genovese della Banca russa per il Commercio estero garantito dal governo russo di Kolčak. Sappiamo solo che il governo di Kolčak aveva iniziato le trattative con la Banca.

Verso la fine della guerra civile russa le condizioni della maggior parte dei rifugiati russi in Italia erano peggiorate a causa della crisi economica scoppiata nel Paese. Nel 1921 Persiani scriveva che «era molto difficile per i russi ottenere l'autorizzazione ad entrare in Italia a causa della crisi alimentare e degli alloggi in Italia»[62]. Nel 1922 a questi svantaggi del soggiorno in Italia si era aggiunto il carovita, fenomeno legato alla svalutazione della lira italiana. Persiani riferiva a K.N. Gulkevič[63] delle speranze dei russi di «trasferirsi in Italia contando su un costo della vita minore dopo il calo della lira italiana nel 1920. Tuttavia questi calcoli si rivelarono scorretti visto che il costo della vita in Italia è aumentato quasi in corrispondenza del calo della valuta italiana»[64]. Nella stessa lettera scopriamo che «da parte del governo italiano non veniva presa nessuna misura per regolarizzare la vita quotidiana dei rifugiati russi perché troppo pochi». Non c’era quasi nessuna possibilità di trovare un impiego («l'Italia stessa sta vivendo una forte crisi economica e conta un intero esercito di disoccupati di tutte le categorie lavorative e l'ultima cosa a cui pensa sono gli stranieri»[65]), le associazioni di mutuo soccorso e di beneficenza (Comitato di soccorso ai rifugiati russi in Italia, la filiale della Croce Rossa russa in Italia, la vecchia Ambasciata russa a Roma e il Consolato a Napoli) non hanno i mezzi per aiutare i bisognosi. Delle insopportabili condizioni materiali e morali della vita in Italia testimoniò un ex ufficiale dell'esercito bianco, B. de Reitern, che chiedeva aiuto per trasferirsi in Bulgaria: «Qui faccio una vita da cani, lavoro come facchino, senza nessun obiettivo nella vita. Tutto è rimasto nel passato»[66].

Probabilmente le scarse risorse economiche hanno determinato una vita sociale e culturale poco attiva della colonia russa in Italia. Lo scrittore e giornalista Mikhail Pervukhin, che viveva all'epoca a Roma, esprimeva il suo rammarico sull'assenza di una vera e propria diaspora russa in Italia: «Non esiste una vita di comunità nel senso stretto della parola. Ci sono non tanto emigrati quanto “temporaneamente trasferiti” che non hanno nessun legame tra loro. Non c'è neanche un accenno di vita sociale, non esiste un centro sociale o politico anche laddove, come a Roma, vivono alcune migliaia di esuli russi»[67]. Pervukhin personalmente cercava di contribuire alla formazione di circoli russi antibolscevichi a Roma. Infatti, la sezione straniera della GPU che osservava con grande attenzione tutte le azioni delle associazioni bianche a Roma era al corrente dell'attività di Pervukhin, impegnato nella «propaganda contro il governo sovietico in relazioni su argomenti di attualità»[68].

I Russi bianchi non potevano usufruire neanche di un solido appoggio da parte dei diplomatici russi. La vecchia Ambasciata perdeva sempre di più gli strumenti ufficiali per difendere i rifugiati russi che avevano rinunciato al passaporto “rosso” ed erano rimasti senza patria in qualità di apolidi. Fino al 1924, anno in cui l'Italia ha riconosciuto de iure la Russia sovietica, l'Ambasciata russa si trovava in via Gaeta 3 (attuale indirizzo dell'Ambasciata della Federazione Russa) gestita dal Vice console Persiani e dal Console generale G.P. Zabello. Già nel 1921 Persiani si lamentava che «in Italia senza alcun dubbio si nota una tendenza a svalutare e indebolire i diritti dei consoli»[69]. Il rapporto tra le autorità italiane e l'Ambasciata del vecchio regime si manteneva spesso in via privata il che presumeva appoggio o favori concessi in via ufficiosa senza lasciare tracce scritte. Questa dipendenza da rapporti privati stabiliti precedentemente con le autorità locali rendeva la posizione dell'Ambasciata russa vulnerabile e precaria ma che nello stesso tempo infastidiva molto i rappresentanti dei nuovi padroni del Cremlino.

Tuttavia, mentre Persiani descriveva le difficili condizioni del suo lavoro in veste di difensore degli interessi degli emigrati russi in Italia, un ignoto agente della GPU riferiva della quasi ottima posizione di cui godeva la vecchia Ambasciata presso il governo italiano. Secondo l'agente segreto «loro contano molto e il loro parere ha un notevole peso ad esempio nella questione della deportazione da parte del governo italiano di Russi indesiderati. […] Li considerano anche come rappresentanti diplomatici. Così, ad esempio, dopo la presa del potere di Mussolini, questi ha inviato l'invito alla festa commemorativa del milite ignoto a Persiani»[70]. Infatti, i diplomatici russi stessi riconoscono che «l'atteggiamento delle autorità locali verso gli interessi di alcuni russi è in genere piuttosto favorevole».

Queste due testimonianze riflettono la posizione ambigua presa dal governo italiano nei confronti dei diplomatici russi e dell'emigrazione bianca in generale. Il cauto atteggiamento verso le attività della vecchia Ambasciata si rivelava soprattutto quando si trattava di «grandi interessi economici e quando il problema poteva essere colto dai partiti di sinistra per attaccare il governo, a cui veniva chiesto continuamente di riconoscere i bolscevichi e di chiudere la rappresentanza del legittimo governo russo»[71]. Un'altra ragione della reticenza del governo italiano era la paura che gli emigrati privi di mezzi di sussistenza andassero ad aumentare il numero dei disoccupati in Italia, di conseguenza si tendeva a limitare il numero di visti rilasciati agli ex cittadini dell'Impero russo che volevano trasferirsi in Italia. Inoltre, la paura dell'infiltrazione bolscevica aumentava i sospetti verso l'emigrazione bianca, che era piena, secondo le informazioni della polizia segreta italiana, di agenti segreti sovietici.

Infine, dopo l’ascesa di Mussolini al potere, l'atteggiamento degli italiani verso i Russi bianchi dipendeva notevolmente dai rapporti che l'Italia fascista costruiva con la Russia sovietica. Il riconoscimento dell'Urss nel 1924 portò allo sfratto inatteso della vecchia Ambasciata e alla sua consegna ai nuovi rappresentanti. Secondo il personale della vecchia Ambasciata tutta la responsabilità per lo sfratto immediato era da attribuirsi al governo italiano: «Il passaggio ufficiale dell'edificio dell'Ambasciata della Russia ai bolscevichi è avvenuto il 7 marzo, cioè il giorno della ratifica dell'Accordo, il che prova per l'ennesima volta che dal momento del sequestro del palazzo e fino al passaggio ai bolscevichi il palazzo andava considerato territorio italiano. Perciò il governo italiano è responsabile di tutte le azioni illegali che sono state compiute in questo periodo a favore dei bolscevichi»[72]. Con la chiusura dell'Ambasciata zarista e la consegna del palazzo di via Gaeta 3 ai rappresentanti del governo sovietico i diplomatici russi perdevano gli ultimi strumenti formali per difendere gli interessi dei rifugiati russi in Italia. Così, ad esempio, essi non potevano più rilasciare i passaporti russi in cambio di quello “rosso” ricevuto dai bolscevichi. Tuttavia, Persiani ha continuato a fungere da rappresentante per la colonia russa in Italia sia per il centro dell'emigrazione russa a Parigi, sia per il governo italiano. Infatti, anche dopo l'ufficiale chiusura dell'Ambasciata zarista «tutte le famiglia russe dimoranti nel Regno, più particolarmente note per i loro sentimenti monarchici pel grado rivestito presso la Corte Czarista, sia nel mondo politico, sia nell'ambiente aristocratico, considerano tale ufficio come rappresentanza morale del loro Governo cessato ed ad esso fanno capo per loro necessità, più che per fini politici»[73]. Nell'estate del 1926 il margine di azione degli ex diplomatici russi si ridusse notevolmente a causa della perdita del diritto di sollecitare presso il Ministero degli Esteri i visti per gli emigrati russi che volevano entrare sul territorio italiano.

Per indagare ulteriormente sulla situazione in cui si trovavano i Russi bianchi in Italia occorre fare un breve accenno al caso di quegli emigrati russi che avevano rifiutato di riconoscere la cittadinanza sovietica e nello stesso tempo non avevano voluto o potuto acquisire la cittadinanza dello stato recipiente. Essi avevano comunque la possibilità di far riconoscere ufficialmente il loro statuto di apolidi. Alla conferenza di Ginevra, cui erano stati convocati i rappresentanti di diversi governi su iniziativa dell'Alto Commissario della SdN, venne ideato il cosiddetto certificato o passaporto Nansen, appositamente pensato per permettere ai «ifugiati di origine russa che non abbiano acquisito altra nazionalità» di spostarsi da un Paese all’altro con un documento di identità riconosciuto. A partire dalla fine dell’anno anche l’Italia aderisce a questo accordo ed emette i primi certificati Nansen all’inizio del 1923 [74]. Secondo l'accordo del 5 luglio 1922 i passaporti Nansen venivano riconosciuti dai Paesi-recipienti a condizione che il rifugiato rispondesse a una serie di requisiti (equivalenti per tutti coloro che avevano residenza stabile nel Paese): che pagasse per il passaporto, il suo rinnovo, avesse i documenti che confermassero il suo status di emigrato, inoltre i documenti che certificassero la sua identità (il passaporto rilasciato dal governo zarista o da quello provvisorio, oppure il passaporto sovietico non rinnovato). Il passaporto Nansen perdeva la sua validità se l'emigrato si recava in URSS e non poteva essere rilasciato se il rifugiato aveva lasciato l'URSS legalmente[75].

Visto che il passaporto veniva rilasciato dai Paesi-recipienti e non dalla SdN, ogni paese si riservava un margine di libertà nello stabilire i requisiti cui dovevano rispondere i richiedenti che dovevano essere «in grado di dare referenze precise sul loro conto ed essere favorevolmente noti alle nostre [italiane] autorità di Pubblica Sicurezza»[76]. Infatti, le autorità italiane erano molto attente al rispetto di queste normative soprattutto quando si trattava della cittadinanza sovietica che il governo italiano non voleva contestare minimamente. In questo modo si creava una situazione paradossale: i rifugiati russi per ricevere il passaporto Nansen dovevano prima rivolgersi alla Rappresentanza sovietica e richiedere la cittadinanza russa, solo ricevendo una risposta negativa potevano fare domanda al governo italiano per il nuovo documento di identità, ma naturalmente i rappresentanti sovietici erano restii a concedere questa possibilità ai loro potenziali cittadini.

Così tra le carte della Pubblica sicurezza dell'ACS troviamo documenti che confermano le difficoltà nella procedura di ottenimento del passaporto Nansen in Italia. Per esempio, una coppia di coniugi russi, i Fiscelson, riceve il passaporto di apolide solo dopo aver presentato alle autorità italiane un documento rilasciato dalla rappresentanza sovietica in Italia firmato da Jan Straujan[77] che confermava che i Fiscelson erano stati privati della cittadinanza russa «in base all’art. A[78] par. I del decreto del 15/XII-21»[79]. La normativa sulla privazione o assenza di qualsiasi cittadinanza lasciava larghi margini di manovra all'ambasciata sovietica, che non concedeva volentieri il certificato di privazione della cittadinanza sovietica, specialmente a coloro che avevano acquisito la nuova cittadinanza lasciando l’URSS legalmente. Dunque un certo numero di nuovi rifugiati non riusciva a liberarsi del proprio “passaporto rosso” poiché non aveva «il consenso del proprio governo all'abbandono della sua sudditanza»[80] e quindi non riusciva a ottenere un altro documento d'identità. Ciò era particolarmente grave dopo il 1924, quando l'unico documento che potevano ottenere i rifugiati russi era appunto il passaporto Nansen visto che l'Ambasciata del vecchio regime non esisteva più e i documenti da esso rilasciati non erano più riconosciuti in Italia.

A questo vincolo tra il rifiuto ufficiale della cittadinanza sovietica e il rilascio del passaporto Nansen fu posto fine solo nella primavera 1926 quando «diventò sufficiente che i testimoni nell'atto notorio sullo stato civile del richiedente confermassero che questi erano di provenienza russa e che non avessero preso nessuna cittadinanza, neanche quella bolscevica»[81]. Nonostante l'approccio molto cauto del governo fascista nei confronti di emigrati bianchi, dovuto al graduale avvicinamento politico alla Russia sovietica, erano dunque previste alcune agevolazioni per facilitare l'acquisizione dello status ufficiale di rifugiati politici russi. Sappiamo anche che, sebbene ormai da tre anni i passaporti russi del vecchio regime o del regime provvisorio ufficialmente non avessero più alcuna validità[82], nel 1927 in Italia i sudditi russi usavano ancora cinque diversi tipi di passaporti, e Mussolini aveva anche provveduto a ridurre i costi del transito in Italia per i Russi diretti nelle Americhe[83].

 

 

5. – Conclusione

 

Dopo aver analizzato la situazione in cui si sono trovati gli emigrati russi bianchi in Italia e l'atteggiamento del governo sovietico verso il loro eventuale rimpatrio si potrebbe dire che i rifugiati russi avevano poca scelta. Non si trattava di un'emigrazione di massa di bassi ranghi dell'esercito come in Cina, dove i sovietici svolsero un lavoro importante per rimpatriare migliaia di persone (circa 40.000 ex soldati degli eserciti bianchi)[84]. L'emigrazione russa in Italia era rappresentata perlopiù da ufficiali bianchi, intellettuali e aristocratici, spesso ormai privi dei loro patrimoni, che trascinavano una penosa esistenza. Questa composizione sociale rappresentava un pericolo per i sovietici e non un ghiotto boccone, perciò il loro atteggiamento verso l'emigrazione russa proveniente dall'Italia era cauto e diffidente, mentre gli emigrati stessi non facevano la fila per ottenere i passaporti “rossi”. Saranno le prossime ricerche a chiarire le specificità del rimpatrio degli emigrati russi svolto in Italia dalle autorità sovietiche.



 

[Un evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti di questa parte della sezione “Memorie” sono stati valutati “in chiaro” dal Comitato promotore del XXXVI Seminario internazionale di studi storici “Da Roma alla Terza Roma” (organizzato dall’Unità di ricerca ‘Giorgio La Pira’ del CNR e dall’Istituto di Storia Russa dell’Accademia delle Scienze di Russia, con la collaborazione della ‘Sapienza’ Università di Roma, sul tema: MIGRAZIONI, IMPERO E CITTÀ DA ROMA A COSTANTINOPOLI A MOSCA) e dalla direzione di Diritto @ Storia]

 

[1] Per diversi aspetti del lavoro svolto dai rappresentanti sovietici a Roma subito dopo la firma dell’Accordo commerciale preliminare russo-italiano del 26 dicembre 1921 rimando al mio contributo: O. Dubrovina Un'istituzione della nuova diplomazia: l'ambasciata sovietica a Roma, in Il Ponte, Anno LXX, nn. 8-9, agosto-settembre 2014, 73-96.

[2] Lettera di N. Tikhmenev a G.V. Čičerin, 27 aprile 1921, in AVP RF, F. 04. Op. 20, 153. D. 15. L. 8.

[3] Idem.

[4] Ibid. L. 9.

[5] Idem.

[6] Costituzione russa del 1918, Cap. 9, art. 49, comma P.

[7] VCIK – (Vserossijskij Tsentral'nuj ispolnitel'nyj komitet) Comitato Esecutivo Centrale panrusso (sovietico). L'istituzione del potere supremo dal 1922 al 1938.

[8] Ju. Felštinskij, K istorii našej zakrytosti, Mosca 1991.

[9] SNK – (Sovet narodnyh komissarov) Consiglio dei commissari del popolo. Il titolo del governo russo-sovietico dal 1917 al 1946.

[10] NKID – Commissariato del popolo per gli affari esteri.

[11] Sobranie uzakonenij i rasporjaženij pravitel'stva za 1917-1918 gg., Upravlenie delami Sovnarkoma SSSR, Mosca 1942, 251 s.

[12] Accordo tra il Regio Governo Italiano e il Governo Russo Sovietico sullo scambio di prigionieri di guerra e civili internati, in Moskva-Rim. Politika i diplomatija Kremlja. 1920-1939, a cura di G.N. Sevostjanov, Mosca 2002, 21.

[13] Graždanskij kodeks s postatejno sistematizirovannymi materialami, a cura di S. Aleksandrovskij, Mosca1928, 339.

[14] Dekrety sovetskoj vlasti, Vol. 11, Mosca 1957, 245 s.

[15] M. Jovanovič, Russkaja emigracija na Balkanah, Mosca 2005, 181.

[16] L.P. Belkovets, S.V., Belkovets Vosstanovlenie sovetskim pravitel'stvom rossijskogo (sojuznogo) graždanstva reemigrantov iz čisla učastnikov belogo dviženija i političeskih emigrantov, in Juridičeskie issledovanija, 2004, № 4, 129.

[17] Sobranie uzakonenij i rasporjaženij pravitel'stva za 1921 g. Mosca, Upravlenie delami Sovnarkoma SSSR, 1944, 950.

[18] V.I. Lenin, Dopolnenija k proektu vvodnogo zakona k Ugolovnomu kodeksu RSFSR, in Polnoe sobranie sočinenij, Vol. 45, 189.

[19] N.N. Ablažej, S Vostoka na Vostok. Rossijskaja emigrazija v Kitae, Novosibirsk 2007, 54.

[20] L.P. Belkovets, S.V. Belkovets, Op.cit., 140.

[21] Lettera di M.M. Litvinov a V.V. Vorovskij, il 27 febbraio 1923, in AVP RF, F. Op. 20., 154. D. 25, L. 14.

[22] Art. 12, comma a, Položenie o sojuznom graždanstve del 19 ottobre 1924, in http://lawrussia.ru/texts/legal_346/doc346a242x390.htm

[23] Art. 12, comma b, Položenie o sojuznom graždanstve del 19 ottobre 1924, op.cit.

[24] O.E. Kutafin, Rossijskoe graždanstvo, Mosca 2004, in http://textbooks.global/konstitutsionnoe-uchebnik/prekraschenie-grajdanstva-initsiative-58086.html

[25] N.N. Ablažej, Op. cit., 56.

[26] A. Accattoli, Rivoluzionari, Op. cit., 285.

[27] GA RF. F. 3316. Op. 13. Ed.hr. 3. L. 205. Citato in M. Jovanovič, Op.cit., 191.

[28] Sui prigionieri russi all’Asinara si veda A. Accattoli, The Forgotten Prisoners: Russian Soldiers of the Great War in the Italian Concentration Camps (1915-1920), in The First World War: Analysis and Interpretation, a cura di A. Biagini,  G. Motta, Vol. 1, Cambridge Scholars Publishing, 2015, 407-415.

[29] Informazione del commissario del popolo per gli affari estero della RSFSR G.V.  Čičerin al Politbjuro sull'invio in Italia della seconda spedizione del grano, 19 settembre 1920, in Moskva-Rim. Politika i diplomatija Kremlja, op. cit., 26.

[30] A. Accattoli, Russkie voennoplennye v italianskih koncentracionnyh lagerjah (1918-1920), in Pervaja mirovaja vojna – prolog XX veka, a cura di Е.Ju. Sergeev, Parte 1, Mosca 2014, 269-272.

[31] N.N. Ablažej, Op. cit., 56.

[32] L.P. Belkovets, S.V. Belkovets,  Op.cit., 142.

[33] ROKK – Società Russa della Croce Rossa.

[34] GPU – Amministrazione politica di Stato (dal 15 novembre 1923 - OGPU).

[35] Sull'attività di Nansen si veda Z.S. Bočarova, Pravovoe položenie rossijskih bežentsev v 1920-1930-e gg., in Adaptacija rossijskih emigrantov (konec XIX-XX v.), Mosca 2006, 72-132.

[36] L.P. Belkovets, S.V. Belkovets,  Op.cit., 143.

[37] Sulla Società russa della Croce rossa in esilio vedi: S.I. Golotik, S.S. Ippolitov, Rossijskoe obščstvo krasnogo kresta (1917 – 30-е gg.), in http://www.antibr.ru/dictionary/ae_rokk_g.html

[38] Sul Comitato Internazionale della Croce Rossa e i rifugiati russi vedi: F. Piana, L'humanitaire d'après-guerre: prisonniers de guerre et réfugiés russes dans la politique du comité international de la Croix-Rouge et de la Société des Nations in Relations internationales, 2012/3, 64.

[39] Lettera № 637 di Ju.I. Lodyženskij alla Conferenza delle Organizzazioni pubbliche russe in Germania, Ginevra, 30 aprile 1923, in Russkie bežency: problemy rasselenija, vozvraščenija na rodinu, uregulirovanija pravovogo položenija (1920-1930-e gody) a cura di Z.S. Bočarova, Mosca 2001, 190.

[40] Telegramma di M.M. Litvinov al delegato del NKID a Novorossijsk Burovtsev, 20 giugno 1923, in Russkie bežency, op. cit., 202.

[41] Lettera di F.A. Rotštejn a Burovtsev, 25 luglio 1923, in Russkie bežency, op. cit., 203.

[42] L.P. Belkovets, S.V. Belkovets,  Op.cit., 142.

[43] Ju. Felštinskij, Op.cit., 56.

[44] Ibid., 67.

[45] Nota ufficiale dalla Rappresentanza sovietica a Roma al Consiglio dei ministri italiano, 2 ottobre 1923, in AVP RF, F. Op. 20, 154. D. 28, L. 21.

[46] Lettera di K.K. Jurenev a M.M. Litvinov, 8 maggio 1924, in AVP RF, F. Op. 20, 155. D. 42, L. 96.

[47] V. Keidan, Aleksandr Ivanovič Alekseev, in http://www.russinitalia.it/dettaglio.php?id=718

[48] Rapporto dell’ex agente di marina della Russia in Italia, capitano di primo rango P. Vrangel', 26 settembre 1923, in Nesbyvšiesja nadeždy, op.cit., p. 409.

[49] Ibid.

[50] Lettera di V.V. Vorovskij a E. Skljanskij, 5 agosto 1922, in AVP RF, F. Op. 20, 153. D. 22, L. 32.

[51] A. Accattoli, Petr Georgievič Vrangel', in http://www.russinitalia.it/dettaglio.php?id=871

[52] Lettera di M. Vodovozov a M.M. Litvinov, 9 aprile 1920, in AVP RF, F. Op. 20, 152. D. 2, L. 8.

[53] L.P. Belkovets, S.V. Belkovets,  Op.cit., 148.

[54] E.I. Pivovar, Rossijskoe zarubežie, Mosca 2008, 82.

[55] L.P. Belkovets, S.V. Belkovets,  Op.cit., 148.

[56] Vozvraščenie, in Russkaja voennaja emigracija 20-h-40-h  godov, Vol. 3. (1921-1924). Mosca  2002,  6, 11.

[57] Z.S. Bočarova, L.I. Petruševa, Pravovoe položenie russkoj emigracii v Italii, in Istoričeskij arkhiv, № 1, 2002, 93.

[58] A. Accattoli, L’italia e i rifugiati russi negli anni 1918-1924, in Emigrazione russa in Italia: periodici, editoria, archivi (1900-1940), 158.

[59] Archivio statale della Svezia, UD, 1920. Cit in Diplomatija russkoj emigracii v Italii (1919-1924) raccolta di documenti, in Rossija i Italia. Russkaja emigraziaja v Italii v XX veke, Mosca 2003. Vol. 5, 73-84.

[60] Lettera di Persiani e Gulkevič, 9 agosto 1922, in Pravovoe položenie russkoj emigracii v Italii, raccolta di documenti a cura di Z.S. Bočarova, L.I. Petruševa, in Istoričeskij arkhiv, № 3, 2012,  115.

[61] Lettera di M.N. Ghirs a V.G. Žukovskij, 4 luglio 1919, in Diplomatija russkoj emigracii v Italii, op.cit, 76.

[62] Lettera di Persiani e Ghirs, 27 febbraio 1921, in Pravovoe položenie russkoj emigracii v Italii, raccolta di documenti a cura di Z.S. Bočarova, L.I. Petruševa, in Istoričeskij arkhiv, № 1, 2012,  97.

[63] K.N. Gulkevič - rappresentante del Consiglio di ambasciatori russi presso il Comitato consultivo dell'alto commissario della SdN F. Nansen a Ginevra.

[64] Lettera di Persiani e K.N. Gulkevič, 9 agosto 1922, in Pravovoe položenie russkoj emigracii v Italii, raccolta di documenti a cura di Z.S. Bočarova, L.I. Petruševa, in Istoričeskij arkhiv, № 3, 2012, 115.

[65] M. Pervukhin, La colonia russa in Italia, 20 febbraio 1921, in Novaja russkaja žizn' (Finlandia), 1921 № 49, 2-3, cit. in E.M. Mironova, Diplomatija russkoj emigracii v Italii (1919-1924), op.cit., 80.

[66] Lettera di un ex ufficiale dell'esercito volontario Boris de Reitern da Roma al suo amico in Bulgaria, 9 luglio 1923, in Nesbyvšiesja nadeždy, raccolta di documenti a cura di I.I. Basik, in Russkaja voennaja emigracija 20-h-40-h  godov, Vol. 2. (1924).  Mosca 2001, 408.

[67] M. Pervukhin, La colonia russa in Italia, op.cit., 80.

[68] Relazione del residente della sezione straniera della GPU a Roma sull'informazione dell'attività del movimento russo in Italia, 14 febbraio 1923, in Nesbyvšiesja nadeždy, op.cit., 399.

[69] Lettera di Persiani e Ghirs, 27 febbraio 1921, in Pravovoe položenie russkoj emigracii v Italii. op. cit., 96.

[70] Relazione del residente della sezione straniera della GPU a Roma sull'informazione dell'attività del movimento russo in Italia, 14 febbraio 1923, in Nesbyvšiesja nadeždy, op.cit., 401.

[71] Lettera di Persiani e Ghirs, 27 febbraio 1921, in Pravovoe položenie russkoj emigracii v Italii. op. cit., 97.

[72] Come è stata chiusa l'Ambasciata a Roma, lettera anonima scritta dall'impiegato dell'Ambasciata, 19 marzo 1924, in  Diplomatija russkoj emigracii v Italii, op.cit., 84.

[73] Rapporto del questore di Roma al Ministero dell'Interno, Direzione Generale della P.S., 7 agosto 1925, in ASD Polizia politica, B. 181.

[74] A. Accattoli, L’italia e i rifugiati russi negli anni 1918-1924, in Emigrazione russa in Italia: periodici, editoria, archivi (1900-1940), 2005, 152 s.

[75] Z.S. Bočarova, Pravovoe položenie rossijskih bežentsev v 1920-1930-e gg., in Adaptacija rossijskih emigrantov (konec XIX-XX v.), Mosca, IRI RAN, 2006, 86.

[76] Telespresso dal Ministero degli Affari esteri al Ministero dell'Interno. Div. Polizia Sez. III, 3 marzo 1925, in ASD MAE, AP, 1919-30, b. 1545.

[77] All'epoca primo segretario della Rappresentanza sovietica a Roma (1921-1923). Membro del Comintern, in Alekseev М.А., Kolpakidi А.I., Коčik V.Ja. Enciklopedia  voennoj razvedki. 1918-1945 gg. Мosca 2012,  736 ss.

[78] «Soggetti che hanno lasciato la Russia prima dell'ottobre 1917 e che non hanno ricevuto dalle rappresentanze sovietiche i passaporti stranieri entro il 1° giugno 1922». Vedi supra.

[79] ACS, PS, 1922, A11, b. 11

[80] Lettera di Persiani a Ghirs, 23 luglio 1927, in Pravovoe položenie russkoj emigracii v Italii. № 3, 2012, op. cit., 119.

[81] Lettera di Persiani a Ghirs, 9 giugno 1926, in Pravovoe položenie russkoj emigracii v Italii. № 3, 2012, op. cit., 125.

[82] Telespresso dal Ministero degli Affari esteri al Ministero dell'Interno. Div. Polizia Sez. III, 3 marzo 1925, 3 marzo 1925, in ASD MAE, AP, 1919-30, b. 1545.

[83] A. Accattoli, Rivoluzionari, intellettuali, spie: i russi nei documenti del Ministero degli esteri italiano, in Europa Orientalis 21, Salerno 2013, 30.

[84] E. Nazemceva, Tjaga s Sovdepiju, in Rodina, № 10, 2011, 130.